L’idea di Marcel Duchamp funziona ancora
Guido Cecere
Sono passati esattamente centouno anni da quando Marcel Duchamp decise, nel 1917, di firmare un orinatoio e collocarlo in un contesto artistico (fu pubblicato in una rivista ma non esposto in galleria), caricandolo di nuovi inaspettati significati.
Sicuramente un gesto provocatorio che aprì una strada completamente nuova all’arte moderna, le cui conseguenze sono ancora oggi in atto.
Come si sa l’idea di ready-made nasce proprio da quel gesto e anche un certo tipo di Fotografia, la Polaroid per esempio, è stata spesso assimilata alle operazioni di “prelievo” e decontestualizzazione che sono rese possibili da questo mezzo.
Il lavoro che Fabio Bolinelli porta avanti negli ultimi anni può, a mio avviso, essere considerato anch’esso appartenente a questa grande famiglia, che ha in Duchamp il padre fondatore.
Chi vive da tanto o da sempre in una città finisce col conoscerla come le sue tasche, la gira in lungo e in largo, in un certo senso la “consuma” visivamente e quindi fa fatica a stupirsi per una “bella foto”, perché ormai la città è stata vista in tutte le salse e da ogni possibile punto di vista.
Ma Bolinelli la re-inventa con una formula fotografica tutta sua e, improvvisamente, la città viene ri-scoperta o addirittura scoperta per la prima volta, perché magari non ci si era accorti di un certo scorcio o di una certa architettura.
L’autore realizza immagini fotografiche perfettamente dettagliate e realistiche, ma scontornate e trasportate in una dimensione altra, irreale e affascinante, perché frutto di una rielaborazione digitale di elegante qualità: un’opera di decontestualizzazione e spiazzamento, pratica tanto cara ai surrealisti, ma ripresa poi anche negli anni Sessanta da alcuni Pop-artisti.
Il lavoro si apprezza non tanto per i funambolismi di post-produzione (che comunque non sono cosa da tutti), quanto per la possibilità che ci viene data di gustare appieno degli oggetti architettonici “liberati” dal loro contesto urbano spesso soffocante o stridente, il tutto reinterpretato con raffinate cromìe.
Ecco che allora il Duomo di Milano o la Rotonda del Palladio ci appaiono ancor più affascinanti di quello che sono, perché vivono magicamente solitari in mezzo a ghiaie, terreni aridi o invasi dall’acqua. Portali, archi, tempietti e monumenti equestri trovano nuovo respiro e nuova vita grazie alla fantasia dell’artista.
Rivestiti da un’aura di mistero i pezzi architettonici si stagliano con smagliante nitidezza su cieli affascinanti, con ardite prospettive. Davanti al suo obiettivo si trasformano in qualcosa di sorprendentemente nuovo, collocati in grandi spazi aperti, con orizzonti a perdita d’occhio.
I monumenti perdono magicamente pesantezza: le finestre e gli archi vengono forati e lasciano intravedere cieli, nuvole e paesaggi, ci lasciano penetrare lo spazio in maniera mai sperimentata prima ed è come se la nostra vista acquistasse maggiore profondità mirando all’orizzonte.
In ultima analisi, poi, superata la piacevole esperienza di aver apprezzato con nuova gioia le bellezze del nostro Paese, il lavoro di Fabio Bolinelli ci porta a una riflessione: sino a che punto il vedere, il fotografare, può essere considerato un atto passivo, quasi automatico, viziato dalla quotidianità, e quanto invece possiamo noi modificare questo atto? Quanto questo suo modo di proporci la realtà architettonica può essere un invito a superare il reale/banale per avventurarci invece in una diversa dimensione a noi sconosciuta e quindi affascinante?
L’immagine emblematica che chiude, almeno temporaneamente, questo ciclo di lavori è senz’altro Piazza Gae Aulenti, dove ci pare di percepire il crepitio di un fulmine che sembra squarciare in due metà l’edificio Unicredit, come se le due emergenze architettoniche avessero generato un forte campo elettromagnetico: la potenza di una nuova visione.
Identita’ e Memoria
Alessandra Santin
Sono composizioni rinascimentali per lo studio della prospettiva e della luce, per l’equilibrio delle forme e delle masse, per l’eleganza degli elementi prescelti e disposti nello spazio, le fotografie che Fabio Bolinelli realizza nell’ultimo periodo della sua ricerca.
L’artista prende per oggetto i mondi della Natura incontaminata e quelli dell’emblematica Architettura monumentale e li relaziona alludendo alla dimensione del Tempo, secondo regole scenografiche di grande impatto estetico ed emotivo. E’ questo il suo modo di rendere visibile ed eterna una narrazione altrimenti impossibile, di ricordare e annunciare eventi passati che lasciano testimonianze eloquenti, cariche di energia narrativa che interroga, esprime questioni, forse previsioni.
Sono proprio queste forme interrogative a porre i suoi scatti fotografici nella condizione ossimorica di dire l’“Indicibile”, sottolineando il pericolo dello scollamento dell’esistenza naturale da quella culturale.
Paesaggi incontaminati e inaccessibili ospitano i necessari frantumi delle grandi civiltà umane, relegati nell’altrove, dimenticati e sottratti alla Memoria. Per l’artista essa è innanzitutto selezione.
La sua natura è duplice, ricorda Bolinelli, poiché tenere e ricordare significa allo stesso tempo lasciare e dimenticare, come una sorta di Giano bifronte che mostra oscurando.
Da qui la fascinazione, la sospensione del fluire del Tempo storico, l’enigmatica articolazione dello spazio in cui l’uomo cessa di stare, distratto e sedotto da altro, incapace di costruire e abitare armoniosamente il mondo.
Quando questo “pensiero” diventa “visione” l’artista lo espone all’aria libera, alle inondazioni, alla luce buia del crepuscolo in attesa di eventi storici ed atmosferici imprevedibili e incontrollabili.
-Faccio appello alla Natura e all’Arte per fede, poiché senza di esse non ho appigli; perché posso interrogarle e superare limiti spazio/temporali altrimenti invalicabili- afferma l’artista.
Proprio quegli stessi limiti da cui egli parte si ripresentano nelle opere “metamorfosati”, carichi di atmosfere cupe, di tinte improprie, di parti vuote di edifici in grado di lasciar vedere attraverso, di assumere splendide forme, di rappresentare momenti silenti e sublimi apparentemente negati al genere umano.
Nell'epoca della globalizzazione fenomenologica Fabio Bolinelli interpella l’Architettura dell’Identità per narrare in modo essenziale eventi stra-ordinari, eccellenze del passato nel presente, catastrofi e splendori che conferiscono identità fanta/realistiche alla Storia.
La cifra poetica di Fabio Bolinelli si radica nelle parole di Lucio Fontana che nel noto Manifesto Blanco nel 1946 scrive “Quando poi, nel rogo finale dell’universo, anche il tempo e lo spazio non esisteranno più, non resterà memoria dei monumenti innalzati dall’uomo,…”
I luoghi che la collettività dedica al rito, al Sacro, alla commemorazione e alla rappresentazione assumono il valore decontestualizzato di “documento” immesso nella Natura. Esso è testimonianza legittimata a esprimere speranza, bellezza, vita che vuole tornare a essere patrimonio comune della collettività.
-Saremo in grado di raccogliere il testimone? - domanda l’artista.
-Se rintracceremo limiti e identità- affermano le sue opere mentre, intorno, la Natura più selvaggia e potente nonostante tutto continua il suo corso.
Percorsi della memoria
Alberto Cassini
Con felice intuizione Fabio Bolinelli ha tratto certi scorci cittadini dallo sgangherato contesto in cui sono spesso immersi, astraendoli in una prospettiva metafisica e restituendo loro il geometrico nitore delle forme.
Sol così riusciamo a cogliere l’eleganza di edifici inseriti in ambiti incongrui, spesso umiliati da un arredo urbano frutto di scelte stravaganti (banali paccottiglie di pessimo gusto) per la cui riqualificazione i posteri dovranno por mano al piccone.
Ai pubblici amministratori del futuro s’imporranno decisioni drastiche:
penso all’osceno complesso del Bronx, che m’auguro faccia la fine di Punta Perotti in una nube di polvere e di calcinacci.
E’ comunque un auspicio che difficilmente verrà attuato: nei tortuosi meandri della politica più che affrontarli i problemi si scansano e quando si giunge ad una faticata soluzione, essa è sempre frutto d’involuti compromessi.
In Italia insomma la linea più breve fra due punti - rammentate Flaiano? - resta sempre l’arabesco.
Avulso dal degradato profilo di piazza della Mota, il convento di San Francesco (di robusta impronta quattrocentesca - 1424), serba integro il fascino d’una fiabesca morgana, come quei borghetti ancor integri che costellano il paesaggio umbro o toscano. La realtà per chi invece s’affacci sul nostro centro storico (in quella ch’era l’unica piazza della città antica) è ben più prosaica.
L’isolato conventuale fu infatti oggetto di due successivi interventi di restauro con esiti inconciliabili: ineccepibile il primo, condotto con riconosciuto rigore filologico (salvo lo sbrecciato mozzicone del campanile), raffazzonato ed incorente il secondo con
esiti d’evidente sciattume, tant’è che Fabio Bolinelli l’ha provvidenzialmente escluso.
Analoghe riflessioni suscita la chiesa del beato Odorico, senz’altro il miglior saggio d’architettura realizzato in città nella seconda metà del Novecento (1891), “inserita - si legge nel volume antologico di Mario Botta - in un contesto incongruo”. Difficile francamente dargli torto. D’un fascino struggente nel suo essenziale razionalismo è la Casa del Mutilato (1937), enucleata dall’infelice prospettiva di piazza XX Settembre, la principale della città, snodo cruciale della movida urbana.
Dopo la rimozione del terrapieno d’epoca littoria la si è affossata come una pozzanghera, lastricandola in arenaria (le cui cromie mal si conciliano con il nostro tradizionale tessuto urbano) e circondandola lungo il terrapieno dell’ex tribunale da quelle botteghe che paion loculi d’un suk levantino.
Prè Ippolito Marone, un colto notaio non digiuno d’architettura (aveva senz’altro letto i testi dell’Alberti e di Luca Pacioli) grazie a Fabio Bolinelli s’è preso una postuma rivincita nei confronti dei suoi immemori conterranei, che hanno sconciato la chiesa della Santissima (da lui progettata - 1518) con una squallida cortina di recinzioni e d’anonimi fabbricati.
Le immagini dell’artista trevigiano riscattano edifici di straordinaria qualità: ripenso alla Casa del Balilla (per i pordenonesi familiarmente la Fiera vecchia), coerente saggio del razionalismo d’epoca littoria (1936); a palazzo Cossetti, superbo saggio d’eclettismo storicista del primo Novecento (1912) e al nostro vecchio caro Municipio, che con le sue trine di cotto concilia i canoni dell’architettura gotica con la torre dell’avancorpo in cui par di cogliere la prima brezza d’una provinciale Rinascita.
E con quest’ultima immagine possiamo congedarci dallo stimolante itinerario propostoci da Fabio Bolinelli: la domus civica, cioè la casa di tutti, che testimonia le radici identitarie della comunità ed il cui fascino riscatta un paesaggio urbano purtroppo contrassegnato
da troppe ombre e da intollerabili guasti.
Milano, everything can BE
Luigi Pedrazzi – Arteutopia Milano
La fotografia italiana contemporanea vive oggi una inattesa stagione di creatività.
Le tecnologie digitali tornano ad essere strumento e non fine del fotografo, che le usa con uno scopo creativo preciso, e la tecnica fotografica con l’utilizzo delle manipolazioni digitali coniuga finalmente un linguaggio maturo ed esplicito e realmente innovativo.
Fabio Bolinelli ha un approccio sinceramente “laico” rispetto al digitale.
Non lo nasconde, anzi, lo rende immediatamente esplicito, ma ne fa strumento di audace fantasia , senza mai tradire però la nitida visione d’insieme, la forza evocativa, la simmetria e la sincerità tipica della migliore fotografia, che non è solo cattura tout court di un istante, o un gioco grafico dalle inutili tinte spettacolari, che spesso rende l’intervento digitale un esercizio vuoto e senza spessore.
Le sue rappresentazioni metafisiche offrono una fotografia solenne e magica, dove gli oggetti della realtà percepita, statue, monumenti, cattedrali, si “rivelano” in realtà parallele, oniriche ma vere, ed acquistano un significato che ne aumenta il valore simbolico e universale, per cui sono nate.
Le fotografie di Bolinelli riescono a trasfigurare l’oggetto nella sua natura più intima e segreta, in una de-contestualizzazione dalle tinte quasi “profetiche” per indagarne il significato più profondo ed esoterico, liberandolo dalle incrostazioni del presente.
Una rinnovata e intensa tensione spirituale, che si pone al di là degli schemi ormai logori della modernità, intesa come accettazione supina di una propaganda mondialista che nega la tradizione in nome del denaro e della omologazione culturale, dove “il mercato” si vuole insinuare anche nel cuore degli artisti.
Fabio Bolinelli ci crede e ci racconta con le sue suggestive immagini che gli uomini hanno spirito e anima, oltre che mani occhi e bocche, e che molti di loro preferiscono ancora la libertà alla ricchezza, la battaglia alla rassegnazione, la fantasia alle regole.
LA FRONTIERA VERTICALE
Alessandra Santin
Un grande silenzio avvolge il mondo di Fabio Bolinelli che opera un’analisi della realtà con le chiavi concettuali dell’arte contemporanea. Egli esplora il panorama secondo visioni naturalistiche in cui compaiono elementi inusuali, provenienti dal mondo del cinema (soprattutto di fantascienza), delle avanguardie artistiche del Novecento, del Neoclassicismo e delle sue scelte formali, affascinate dalle proposte dell’arte classica. Citazioni dotte e incanti del tempo fermo, inducono ad una lettura lenta, ad indagare i nessi che annodano la lingua alla comprensione delle cose. Tutto nei suoi lavori va trattato con le modalità dell’interpretazione. Guardare analiticamente appare l’imperativo assoluto, e sperare, e domandare ancora e ancora. E infine sorprendersi ad assaporare il piacere dell’enigma, il senso dell’arresa e della resa alle parole, che non sono mai riuscite a rivelare l’unica verità delle cose, poiché “l’aura che circonda certi scenari della natura, certi desideri e dolori privati, non si lascia trasformare in discorso” (G. Steiner, Vere presenze, Garzanti, Mi, 1992, p.94).
“Si può intuire il profilo di figure poste al di là del legame che le avvolge; si può tentare un balzo nell’infinità del pensiero, è possibile, infine, invocare l’autorità del silenzio” (A. Trione, Mistica impura, il Melangolo, GE 2009 p. 37).
Con queste chiavi di lettura che liberano dall’imperativo del comprendere e inducono ad assaporare la pluralità senza limiti del senso, Fabio Bolinelli lascia emergere l’unità interna della sua poesia, la cifra stilistica che contraddistingue ogni sua opera, ambientata oltre la frontiera verticale dello spazio/tempo quotidiano. Colore e bianco e nero si annullano nelle tinte sbiancate, decolorate o falsate da pigmenti accesi ed iperrealistici. Frammenti ed elementi impropri convivono sfiorandosi, in volo, alludendo a compresenze inattese e a vite parallele. Simboli e soglie alludono a forme di passaggio, ad un altrove dove tutto è accaduto o dove tutto e niente è perduto. Altrove, in cui vive quell’evento enigmatico e insondabile che è la poesia. Questa frontiera verticale entra nel mondo reale attraverso una porta sospesa sull’orizzonte marino, uscio improbabile, nero e monolitico, in/traversabile. Più in là il farsi della vita che prende la forma originaria dell’uovo.
Uovo in quanto espressione dell’intero alla nascita, intero che contiene universi, l’infinito e il nulla, la luce aurorale e le notti incombenti. Contiene anche il Vuoto in cui si muovono angeli, pianeti, lune e nomadi tuareg su dune deserte. Ciascuno appare assorto e solitario nei luoghi della natura reale/virtuale, mentre percepisce le vibrazioni minime del divenire.
Secondo Fabio Bolinelli si tratta di cogliere il pensiero e il respiro attraverso il mistero, ma soprattutto mediante la consapevolezza, da parte dell’uomo, di appartenere ad esso. Ineffabile ed inafferrabile, esposta al vento, oltre e altrove ovunque è vita, bellezza dell’incanto assoluto. Qui l’uomo avverte la nostalgia di una perfezione iniziale forse perduta, e riconquistarla comporta la fuoriuscita dal tempo e dalla creazione, oltre ogni frontiera, soprattutto quella mentale/verticale.